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26.5.17

Nothingwood (id., 2017)
di Sonia Kronlund

QUINZAINE DES REALISATEURS
FESTIVAL DI CANNES
Dalla forza viscerale con la quale Samil Shaheen grida “Azione!” con un colpo che pare venire ogni volta dal diaframma, si dovrebbe capire tutto.
Cineasta dalla produttività mostruosa (più di 110 film e ha intorno alla 50ina d’anni) e dalla qualità al di sotto di qualsiasi standard occidentale ma apprezzata nell’inesistente industria del cinema afghana (da cui il titolo del documentario), Samil è scrittore, produttore, regista e attore dei suoi film d’azione sgangherati ma vitali. Conosciuto e amatissimo, gira con amici e conoscenti improvvisati da decenni, balla e canta nei suoi film, ha ambizioni senza senso per i propri mezzi a cui associa volentieri una bocca larga quanto quella di Mohammed Alì.

Cineasta come non sarebbe concepibile altrove, innamorato del cinema da quando era nell’esercito, continua a concepirlo come qualcosa di militare e si percepisce come un generale. Per lui le prime caratteristiche di un regista sono la forza e il vigore fisico, poi il bel canto. Se il suo operatore (spesso uno dei molti figli) non inquadra quel che vuole gli tira dei sassi. Grossi.
Samil è l’oggetto di Nothingwood, documentario che scopre dove sia il cinema in un paese in cui il cinema non c’è, cosa significhi fare intrattenimento audiovisivo là dove non ci sono mezzi e come le persone ne godano. Sonia Kronlund segue Samil nelle riprese di alcune scene tratte dalla sua vita, ci parla, lo interroga, segue i suoi attori ricorrenti.

Nothingwood è un documentario che alterna la sorpresa all’ammirazione per sfociare spessissimo nel platealmente esilarante, in un film che, purtroppo, somiglia più all’etnografia che al cinema. Infatti questo soggetto straordinario che nelle mani di un Werner Herzog sarebbe diventata una figura epica e letteraria o che in quelle di un qualsiasi altro conoscitore e amante del cinema sarebbe stato sviscerato nelle sue vere particolarità, invece che nelle più banali implicazioni politico sociali, è qui mal affrontato.

Se ne può però volere fino ad un certo punto a Sonia Kronlund, che non viene dal mondo del cinema e sembra sempre farsi la domanda meno interessante di tutte di fronte a ciò che vede, e lascia trapelare anche un giudizio inclemente sul suo soggetto invece di essere aperta con lo sguardo. Lei ride di Samil e non ne apprezza la tenacia produttiva e la forza combattiva o come in piccolo lotti contro gli stessi problemi di un Abel Gance.
Se ne può volere fino ad un certo punto anche al documentario, perché per fortuna Samil dirotta a più riprese la narrazione con la sua sola presenza, con la sua forza espressiva impone ritmi e idee, con la sua energia e le sue menzogne plateali (ovunque vada dice “Mia madre è originaria di qui”) decide di cosa si debba parlare ogni volta.
Per questo motivo alla fine si passa volentieri sopra a tutto per una standing ovation a questo sensazionale e immenso uomo di cinema, come non credevamo fosse possibile che ne potessero ancora esistere.

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