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16.1.17

Bright Lights: Starring Carrie Fisher and Debbie Reynolds

Raramente un documentario su una star hollywoodiana in vita è riuscito così tanto a mostrare la vita dietro la professione. Raramente del resto c’è stato così tanto da mostrare.
Carrie Fisher e sua madre Debbie Reynolds hanno aperto le porte delle loro due ville adiacenti in un comprensorio di Beverly Hills, per mostrare una quotidianità che, non fosse per i memorabilia dell’era dell’oro di Hollywood (e ovviamente di Star Wars), potrebbe essere simile a quella di due redneck della Louisiana, nutrite a soufflè, coca cola e sigarette. Nei loro battibecchi, il cui eco affonda in decenni di convivenza, nella maniera in cui dipendono l’una dall’altra e si sopportano c’è un irresistibile bisogno d’affetto.

Ma se in fondo è normale in una donna molto in là con gli anni come Debbie Reynolds, questo bisogno stupisce in Carrie Fisher, tutta piegata sulla madre e solo occasionalmente concentrata su di sé e qualche visita che riceve. Nonostante non muova mai un passo dal suo cinico umorismo, e nonostante la gran parte del racconto riguardi Debbie Reynolds, la sua carriera, i suoi mariti, i suoi film e la sua vita con i figli (proprio in questo ordine di priorità), è davvero Carrie Fisher la protagonista silenziosa. Nel documentario è molto presente anche suo fratello, Todd Fisher, un vero rovinato dalla vita, sposato con un'ex attricetta nota per aver fatto un paio di episodi di Supercar ("molto importanti" dice lei) e che in seguito a questo ha comprato una delle molte macchine replica di KITT, che ora tengono in garage. Lui è proprio lo specchio oscuro di Carrie, se lei non se la passa bene è impossibile dire cosa sia successo a lui. Ad ogni modo tutto il documentario è accompagnato dalla sorella e figlia, lei sta sempre con la videocamera, lei spiega e racconta, si confessa e, nel suo malcelato bisogno di stare con la madre, attira l’attenzione dello spettatore. Sappiamo da tempo che è affetta da disturbo bipolare ma, nonostante non si veda mai nulla di eccessivo e lei sia sempre in forma e ben curata, qui per la prima volta appare malata, perché innaturalmente priva di una vita propria.

Il ruolo che ha nell’immaginario degli spettatori è relegato a pochi momenti tra cui una convention di Guerre Stellari in cui firma autografi e si fa foto per tutto il giorno per soldi: “È come fare lap dance per un pubblico solo che non ti mettono le banconote nel reggiseno”. Se sappiamo bene l’effetto che questo ha sui fan (estasiati), meno sapevamo quello che ha su di lei “non sono Leia, sono semmai la sua custode. È lei che vogliono incontrare, mi chiamano con il suo nome, e io sono semplicemente la cosa più vicina che esista a lei”. C’è un disincanto incredibile e una marginalità sorprendente nella maniera in cui questa donna vive il più grande successo della sua vita, l’evento da cui dipende tutto.

Tra filmati di repertorio, molta attualità e quasi più di un anno nella vita delle due (tra premi alla carriera, crisi e spettacoli a Las Vegas dell’infaticabile Debbie) questo documentario che sembra sempre stare lì lì per virare su Che Fine Ha Fatto Baby Jane?, non può essere definito “appassionante” ma di certo rivelatorio di molti aspetti celati. Ad esempio quanto una donna bella come Carrie Fisher si sentisse inadeguata e avesse dovuto sviluppare una personalità divertente per sentire di essere la preferita del padre, in concorrenza con la diva perfetta Debbie Reynolds e poi la sua seconda moglie: Elizabeth Taylor.
Ci sono dei momenti intimi in cui Carrie Fisher parla con un suo amico di vecchia data, a casa sua, di sera, coperta di brillantini in volto come spesso è, nei quali si può provare una tenerezza sconfinata per una persona che ha avuto (e in fondo ancora ha) tutto ma a cui, per carattere, sembra continuamente sfuggire la possibilità di cavalcare o godere dei propri successi.

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